Le parole e il loro significato per il Coaching

Comunicazione disfunzionale? I ruoli del Triangolo Drammatico

Che cosa rende la comunicazione interpersonale efficace e costruttiva? Cosa rende invece la comunicazione incapace di agevolare conversazioni sane? Cosa caratterizza le dinamiche relazionali in cui i messaggi non portano scambi virtuosi? Quali modelli comunicativi ostacolano sia la socialità che la crescita individuale?

L’approccio dell’Analisi Transazionale contempla fra i suoi modelli teorici uno schema che permette di analizzare la comunicazione disfunzionale, al fine di promuovere la consapevolezza e l’uscita da quelle “trappole” in cui spesso cadiamo, nostro malgrado.

In questi tranelli percepiamo in modo confuso emozioni di malessere o un senso di inadeguatezza e di impotenza. Nello scambio comunicativo spesso si celano messaggi “ulteriori”, dei quali cioè non siamo consapevoli nella relazione con gli altri.

Il triangolo drammatico

Il modello del “Triangolo Drammatico” fu elaborato da Stephen Karpman nel 1968 e da allora rappresenta uno degli strumenti principe dell’Analisi Transazionale, attenendosi alla semplicità e immediatezza del linguaggio che caratterizzano questo orientamento teorico, con un lessico chiaro e accessibile.

Il modello si basa sull’identificazione di tre “ruoli drammatici” che ognuno di noi può ricoprire a seconda dei suoi schemi di comportamento nelle relazioni, e delle personali dinamiche intrapsichiche. Il mondo – come diceva Shakespeare – è un palcoscenico sul quale recitiamo uno o più ruoli, proprio come gli attori di un dramma. Per illustrarli partiamo da un esempio.

Silvia sta preparando la cena. Si rivolge al marito Claudio per chiedergli aiuto:  S.: Mi dai una mano in cucina? C.: Si certo, arrivo …  S.: Prepara il soffritto mentre io finisco di decorare il dolce   Claudio lava le verdure, le taglia e le versa nella pentola con l’olio. Silvia si avvicina ed esclama: Ma noooo! Hai usato troppo olio non vedi? E le verdure sono a pezzi troppo grossi! Non ci metti un minimo di impegno!  C.: Allora preparatelo tu il soffritto!  S.: Come al solito! Devo fare sempre tutto io!

  • Dapprima Silvia fa una richiesta di aiuto, senza fornire tuttavia a Claudio istruzioni precise. La posizione iniziale di Silvia è inconsapevolmente “persecutoria”: comunque si comporterà Claudio lo farà in modo errato: se la aiuta sbaglierà nel modo in cui lo fa, se non l’aiuta sbaglierà per il fatto di non farlo.
  • Claudio accoglie la richiesta apprestandosi a soddisfarla. Entra pertanto in un ruolo di “salvataggio”nei confronti della moglie. Non avendo istruzioni dettagliate, e potendo contare su una scarsa esperienza, Claudio esegue il compito a suo modo, ma un modo che scontenta la moglie, la quale conferma il proprio ruolo di “persecutore” ed esprime su di lui un giudizio severo e negativo.
  • Claudio, dopo essere diventato una “vittima” dell’attacco di Silvia, reagisce bruscamente sottraendosi alla richiesta, ed entrando così a sua volta nel ruolo di “persecutore”, mentre Silvia si trasforma nella “vittima”, costretta a sostenere tutto il peso delle faccende domestiche.

Nell’arco di un tempo molto breve la comunicazione fra Silvia e Claudio evidenzia il loro passaggio da un ruolo all’altro, in uno scambio che lascia entrambi insoddisfatti e, per restare in tema gastronomico, “con l’amaro in bocca”.

I ruoli “drammatici” che giochiamo

I ruoli drammatici si trovano ai vertici di un triangolo che illustra la dinamica comunicativa fra il “persecutore”, il “salvatore” e “la vittima” (cfr. Figura 1, in cui le frecce indicano la direzione dello scambio di ruoli).

  • Il persecutore si colloca in una posizione di superiorità rispetto all’interlocutore, si sente OK e considera gli altri NON OK, svalutandone le capacità.
  • Il salvatore si pone nella posizione di chi soccorre, aiuta, si rende utile, è disponibile e compiacente. In apparenza si prodiga per gli altri ma cela in fondo la convinzione che gli altri “non siano in grado”, o non abbiano sufficienti capacità. Anche in questo caso avviene una svalutazione dell’interlocutore e, in definitiva, il salvatore si sente OK mentre percepisce gli altri in posizione one down.
  • Infine abbiamo la vittima, la quale oltre ad essere tale per gli altri lo è anche per se stessa, in un processo di auto-svalutazione. Si sente infatti NON OK, inadeguata, sfortunata o incompresa, e reputa che gli altri le siano superiori.

Ognuno di noi può assumere uno dei tre ruoli, e passare dall’uno all’altro. A seconda della percezione di sé e del mondo (posizione esistenziale) ricopre tuttavia un ruolo “preferito” nel quale trascorre la maggior parte del tempo.

La rotazione dei ruoli drammatici all’interno del triangolo è caratterizzata dal fatto che, ad ogni scambio di ruoli, ciascuno dei protagonisti avverte una sorpresa, un effetto spiazzante, in molti casi si sente confuso. Finisce col provare un’emozione spiacevole, dato che come abbiamo visto la rotazione nel triangolo implica una svalutazione, di sé stessi o degli altri nella dinamica relazionale.

Si attua un processo di comunicazione disfunzionale in quanto sono tre ruoli non autentici, i quali non si fondano su una posizione adulta e non comprendono un esame realistico di noi stessi, dell’altro e della realtà. Sono la proiezione nel “qui ed ora” di strategie infantili, inadeguate e disfunzionali, di andare avanti nella vita.La comunicazione costruttiva

Il primo passo è riconoscere lo schema del triangolo drammatico, il secondo, il più difficile, è provare a uscirne. Questi schemi rappresentano qualcosa di noto, familiare: pur essendo dannosi, il fatto di superarli può farci sentire insicuri e spaesati inizialmente. Ciò non toglie che abbandonare da questi circoli viziosi comunicativi può avvicinarci a una maggiore serenità.

Come sarebbero andate le cose nell’esempio riportato se la comunicazione fosse stata costruttiva nel rapporto tra Claudio e Silvia? Una possibilità sarebbe stata che Silvia specificasse il procedimentoper fare un buon soffritto. Claudio, dal canto suo, avrebbe potuto rispondere affermando pacatamente, ma con decisione, che l’affidargli un incarico comprendeva l’accettazione del modo in cui l’avrebbe svolto.

Una comunicazione costruttiva richiede dunque la conoscenza del proprio ruolo, la cui consapevolezza consente di valicarlo e divenire coscienti del modo in cui ci si approccia all’altro nelle relazioni. Come nelle fiabe o nei copioni ogni personaggio che ricopre un ruolo ha bisogno degli altri personaggi che lo confermino. Non ci sarebbe Cenerentola senza le sorellastre e la matrigna a farne una vittima, così come non ci sarebbero le peripezie di Renzo e Lucia ne “I Promessi Sposi” senza il persecutore Don Rodrigo …

Conoscere il nostro ruolo preferito ci permette dunque di far saltare la trama, ci evita di restare invischiati, senza rendercene conto, fra i nodi e gli intrecci della comunicazione disfunzionale!

… siamo gli attori ingenui sulla scena di un palcoscenico misterioso e immenso. 

(Francesco Guccini)

Rossella Maiore Tamponi – Paolo Lorenzo Salvi

La competenza narrativa: riscoprirla ed esprimerla

La competenza narrativa è data dalla nostra capacità di pensare in forma di racconto, poiché in ogni contesto umano esiste già una storia. Tutti noi abbiamo bisogno di attribuire un senso alla nostra esperienza, una rielaborazione che giunge dopo che le cose sono successe, dopo che ritorniamo al corso degli eventi per trovare un filo rosso di coerenza. Il solo modo che abbiamo per trovare significati alla trama delle nostre azioni è il racconto, l’atto di narrare, esprimendo la nostra abilità naturale di storyteller.

Secondo l’autore di best seller Christopher Booker la ricerca di universalità del significato viene resa disponibile a tutti noi dai buoni narratori:

Il reale significato della nostra abilità nel raccontare storie è duplice. In primo luogo, fornisce uno specchio unico che rivela le dinamiche interiori della natura umana. Ma in secondo luogo, denudando le fondamenta inconsce che sottostanno al modo in cui vediamo il mondo, può illuminare di una luce straordinariamente rivelatrice la Storia, la politica, la religione, la filosofia e quasi ogni aspetto del pensiero e del comportamento umani”.

La competenza informale del narratore

Se consideriamo la nostra “storia di vita” come un susseguirsi di situazioni e di vicende che ci fanno sperimentare, il nostro campo di esperienze personale crea una base di conoscenza che “raccontiamo agli altri”.

È una competenza informale che si forma estraendo significati individuali dalla trama di esperienze e di ruoli che viviamo. Alla base della competenza informale del narratore c’è un processo di crescita personale che parte dalla riflessione e dalla consapevolezza.

All’interno dei nostri contesti sociali noi agiamo, ci relazioniamo con altre persone, prendiamo delle decisioni spinti da bisogni e desideri, costruiamo ricordi legati ai nostri vissuti emotivi. Sono le azioni compiute in base a cosa sentiamo e proviamo e le scelte che facciamo a costruire le situazioni della vita a dare un senso a ciò che facciamo.

Alcuni più istintivamente ed altri più razionalmente ci leghiamo a idee, ispirazioni, progetti, visioni, speranze, paure, amori e vite altrui che diventano patrimonio di conoscenza personale. La consapevolezza, il flusso di attenzione dove orientiamo i nostri pensieri e la nostra ricerca, ci consente di trasformare questa conoscenza implicita in materiale per l’autobiografia e la narrazione.

Interpretare il significato delle nostre azioni e delle nostre esperienze vuol dire mettere le azioni in connessione con altre azioni. La ricerca di coerenza che naturalmente operiamo ci porta a collocare la singola azione dentro una storia. La vita scorre e bisogna saper cogliere il momento ed il senso: spesso questi elementi ci sfuggono dentro il vortice della quotidianità che tutto assorbe. Abbiamo bisogno di interpretare il vissuto ed i ruoli che giochiamo nella vita di tutti i giorni, per trovare la nostra cornice di un senso. Per farlo tutti noi costruiamo delle storie.

La competenza informale del narratore emerge in tutti noi come esigenza primaria di significato esistenziale e la nostra vita quotidiana è fatta di narrazioni nel nostro dialogo interno e nella relazione con gli altri. Siamo narratori nati con questa competenza informale, come quando attorno ad un falò ci raccontiamo e tutto è semplicemente istinto di narrare.

La competenza dell’empatia

Siamo abituati a riconoscere e comprendere le storie.

Spesso quando qualcuno legge una storia, l’identificazione con i personaggi e il coinvolgimento emotivo nella storia causa nel lettore simpatia nei confronti dei personaggi, e forse anche la sensazione nei lettori di star sperimentando davvero quegli eventi. Di conseguenza, il lettore diventa empatico quando legge una storia basata sulla fiction.” ( Storytelling in Organizations: Facts, Fictions, and Fantasies. Yiannis Gabriel)

Entriamo in connessione con le storie e quindi sviluppiamo empatia e questa modalità diventa componente espressa quando empatizziamo con i racconti, le vicende e i personaggi delle storie che creiamo o che ascoltiamo.

L’abilità dell’empatia incide sulla competenza espressa del narratore in relazione a due aspetti:

  1. la componente emotiva che ci fa comprendere ed esprimere le emozioni legate alla narrazione, creando un grado di immersione nella storia che la rende “veritiera” e capace di catturare e di ispirare;
  2. la componente cognitiva: che ci permette di comprendere meglio la pluralità dei punto di vista dei nostri interlocutori, entrando virtualmente nel loro modo di pensare, analizzando i ragionamenti e prevedendo le possibili reazioni.

Quando condividiamo con gli altri delle storie, come in una serata con gli amici in trascorsa in casa, si condivide la conoscenza di determinate vicende umane. Ma in primis si trasmette il portato di emozioni che la storia può suscitare e che viene messo a fattor comune. La narrazione da questo punto di vista si appoggia alla competenza dell’empatia e ne richiede una espressione sociale per arrivare ad un sentire compartecipato e condiviso.

La competenza del dialogo

La teoria dell’apprendimento relativa al costruzionismo sviluppa l’idea che possano esistere altre narrazioni altrettanto “veritiere” delle nostre, e che noi possiamo sempre cambiare il nostro punto di vista e costruire con gli altri una o più nuove narrazioni.

Ogni nostro racconto è costituito da una trama di avvenimenti, personaggi ed azioni tenuti insieme dal nostro “format narrativo”, dalla nostra capacità di raccontare in termini di relazioni e interconnessioni quello che ci è successo.

Per Wikipedia il Il termine dialogo (dal latino dialŏgus, in greco antico διάλογος, derivato di διαλέγομαι «conversare, discorrere» composto da dià, “attraverso” e logos, “discorso”) indica il confronto verbale che attraversa due o più persone come strumento per esprimere sentimenti diversi e discutere idee non necessariamente contrapposte. Tramite il dialogo emergerà una nuova storia, oppure potremmo ritrovare una comprensione diversa di una storia già raccontata, che progressivamente verrà sempre più elaborata in termini di significati condivisi con gli altri.

Seguendo questo approccio, ricostruire le nostre narrazioni dialogiche è un modo di apprendere e dare senso alle cose. Esprimiamo la competenza narrativa del dialogo con le altre persone che ci consente di intrecciare le storie e di costruire senso insieme:

«E nell’interazione tra narratore e ascoltatore che emergono nuove narrative: il testo che si sviluppa e qualcosa che avviene tra le persone» (Allen e Allen, 1997).

Bruner dice che la vita è un romanzo, è la storia che narriamo di noi stessi. Per questo psicologo dell’educazione non occorre essere grandi romanzieri, ci è sufficiente essere solo esseri umani capaci di contestualizzare piccole e grandi esistenze nel palcoscenico di una storia.

Tutti noi sappiamo narrare costantemente il nostro romanzo di vita nei dialoghi quotidiani, tra piccole e grandi scene da commedia e da tragedia. In questo modo diamo ricostruiamo in senso autobiografico la nostra vita e utilizziamo tutti il pensiero narrativo per raccontare dei materiali che sono a tutti gli effetti dei testi letterari, che a loro volta tornano a dare significato alla nostra esistenza.

La competenza di story making, essere costruttori di storie  

Secondo Annette Simmons, autrice di “The Story Factor” chiunque cerchi di influenzare gli altri deve prima conoscere la propria storia e sapere come raccontarla attraverso lo sviluppo di un arco narrativo. Sia che ci stiamo accingendo ad una nuova impresa rischiosa, oppure stiamo cercando di concludere un affare o conducendo una personale battaglia contro una ingiustizia subita da noi o da altri, abbiamo tutti una storia da raccontare.

Ci sono alcune tecniche alla portata di tutti noi per reperire storie e riferirci ad esse come modelli. Eccone alcune che ci rendono story maker, ovvero costruttori di storie.

  • Cercare modelli simili: temi ricorrenti che ci aiutano a stabilire “chi siamo” come persona; momenti “epici” nella nostra vita e il loro significato per noi.
  • Individuare le conseguenze: si richiamano alla memoria i risultati positivi e negativi degli sforzi passati e come hanno contribuito a farci sviluppare i metodi in cui crediamo oggi.
  • Cercare lezioni da trasmettere: ricordare le crisi passate e ciò che hanno insegnato. Rievocare il nostro più grande sbaglio, un punto di svolta nella carriera lavorativa e cosa abbiamo imparato da questi momenti;
  • Cercare l’utilità: tutti abbiamo un racconto che ci ha cambiato; possiamo ispirarci a storie che abbiamo sentito e che sembrano funzionare al loro scopo.
  • Cercare riferimenti come film o libri: il film o il libro preferito ci piace per un motivo preciso che possiamo portare nelle nostre narrazioni personali.
  • Cercare esperienze future: sviluppare i sogni e le visioni future in una storia che popoliamo con personaggi reali, le persone apprezzano di essere inserite in un racconto come personaggi.

La congruenza e la coerenza sono elementi vitali. La visione, gli insegnamenti e i valori presenti nei nostri racconti sono materiale per alimentare anche le storie degli altri e renderli a loro volta “story maker“.

Competenza informale, empatia, dialogo e story making sono parte della competenza narrativa. I racconti personali permettono agli altri di vedere chi siamo in modo più immediato di qualsiasi altra forma di comunicazione e permettono a noi di auto rivelarci, scoprendo aspetti della nostra storia di vita che rimarrebbero altrimenti invisibili.

Le carezze: come ci riconosciamo nei rapporti umani

Di carezza in carezza: come “filtriamo” i complimenti

I messaggi, verbali e non verbali, che implicano un riconoscimento da parte dell’altro al nostro fare o al nostro essere sono denominati carezze in Analisi Transazionale. Con questo termine si traduce in modo approssimativo l’inglese “stroke”, che possiede un’ accezione più neutra e significa colpo, tocco. Vediamo cosa succede nella realtà quotidiana quando abbiamo a che fare con quelle particolari carezze che esprimono complimenti o apprezzamenti.

Accettare un complimento non è una cosa scontata ... I complimenti, le forme di riconoscimento positivo, sono ambite da tutti noi e da tutti ricercate più o meno consapevolmente, sono lo strumento che utilizziamo per stabilire “l’indice di gradimentodella nostra persona nel mondo, o per valutare le nostre capacità professionali in un contesto, per confermare o modificare la nostra percezione di noi stessi.

A un’attenta osservazione, davanti a un complimento, le cose non sono sempre del tutto chiare. Accade di pensare: “… lo dice ma non ci crede veramente …”, oppure “dice che sono simpatica perché non sono bella …”, o ancora “lo dice perché vuole ottenere qualcosa …”, “… lo dice solo per incoraggiarmi …”. Si tratta spesso di stratagemmi inconsapevoli che utilizziamo per “filtrare” i riconoscimenti positivi, e questi stratagemmi dipendono dalla “quantità” di complimenti che riusciamo “a reggere”, a seconda della nostra personalità e, soprattutto, delle forme di riconoscimento che abbiamo ricevuto nell’infanzia e nell’adolescenza.

Carezze positive e negative, condizionate e incondizionate

Le carezze possono essere positive o negative, a seconda che contengano approvazione o disapprovazione, o che facciano riferimento a una qualità o a un “difetto”. Ci sono carezze positive condizionate, cioè motivate da qualcosa che abbiamo fatto: “complimenti!”, “hai fatto un ottimo lavoro”, “che bel disegno!”; e ci sono carezze negative condizionate come “non mi è piaciuto quello che hai detto …” oppure “ti sei comportato in modo scortese …”.

  • Le carezze condizionate si riferiscono a un comportamento, a una performance, e pertanto non investono la persona nella sua totalità e identità.
  • Le carezze incondizionate riguardano invece l’essere nella sua interezza: “ti voglio bene”, “sei sensibile”, “mi sei simpatico”.

Sono carezze positive incondizionate anche un semplice sorriso, o un abbraccio spontaneo.

Carezze ambigue e fasulle

Ci sono poi carezze scivolose, ambigue o fasulle, come: “bello … ma potevi fare di meglio”, oppure “per essere un po’ in carne sei bellissima”, o ancora “vedo che hai capito più o meno …”. In questo caso la carezza pecca di autenticità viene elargita e contemporaneamente ritirata, oppure attenuata. All’estremo troviamo le carezze di plastica, quando riceviamo un apprezzamento in modo formale e di circostanza, percependo chiaramente una mancanza di schiettezza.

Il nostro modo di riconoscere l’altro

Quello che si rivela particolarmente interessante riguarda il nostro modo personale di dare o ricevere carezze che dipende dal modo in cui abbiamo fatto esperienza dei riconoscimenti nel corso della nostra storia di vita. Se abbiamo ricevuto poche carezze o ne abbiamo ricevute in abbondanza di negative facilmente finiremo per interpretare una dimostrazione di stima come una frase compassionevole (“lo dice solo per lusingarmi … ma non lo pensa veramente …”), così come un’opinione diversa dalla nostra può diventare il ripiego per rafforzare la convinzione di non essere abbastanza intelligenti o di essere incompresi (“ecco, non riesco mai ad esprimermi …; non mi capiscono …”).

Insomma, abbiamo un nostro “filtrodelle carezze un meccanismo interiore e inconsapevole per far passare solo quelle che vanno a confermare l’idea che abbiamo di noi stessi. Questo può andare sia in direzione del rafforzamento della nostra autostima, sia in direzione di una conferma del nostro sentirci inadeguati o “inferiori”.

L’economia delle carezze

Lo psicologo clinico e analista transazionale Claude M. Steiner analizzava negli anni ‘70 le dinamiche del riconoscimento sociale elaborando una concezione ancora di grande attualità. Gli strumenti più efficaci di controllo sociale, sostiene Steiner, non sono riconducibili solo alle varie forme di coercizione o di sanzione ma sono rintracciabili, in prima istanza, in un atteggiamento educativo secondo il quale le carezze vengono dosate, monopolizzate e orientate in modo da favorire od ostacolare i comportamenti delle persone. Se ad esempio ti dico che sei bravo nel fare una determinata cosa, e incapace nel farne un altra, più o meno consapevolmente finirò col rafforzare o scoraggiare il tuo comportamento di fare o non fare, e qualora questo schema si ripetesse in modo sistematico nelle prime fasi del ciclo di sviluppo, andrà nel lungo termine a influire sulla formazione della personalità e sulle scelte di vita.

 Il valore educativo delle carezze

Claude Steiner si occupò delle carezze durante il processo educativo, e dunque del modo in cui genitori ed educatori “amministrano” quella che egli chiama l’economia delle carezze, basata su 5 regole di base dalle quali ci invita a “scappare”, poiché esse vanno ad alterare la naturale propensione degli esseri umani a scambiarsi carezze positive in abbondanza, come una forma di nutrimento reciproco.  Steiner parla infatti di una “fame di carezze”fisiologica all’essere umano che, se deprivato, rischia un’astenia emotiva, affettiva, o un senso di frustrazione e di solitudine.

Vale la pena ricordare che le carezze condizionate negative sono uno strumento importante per ogni educatore: a un bambino che si avventa sul fratello più piccolo perché gli ha strappato di mano il gioco preferito sarà importante dire che il suo comportamento non è OK (carezza condizionata negativa), e poi insegnargli un modo adeguato e ragionevole di esprimere la sua legittima rabbia.

Si tratta quindi di regole condivise a livello sociale e imperniate sulla cultura familiare e comunitaria, sulla morale, la religione, le consuetudini e i retaggi intergenerazionali. Ecco quali sono:

  • Non dare carezze se hai da darne
  • Non chiedere carezze se le desideri (alle carezze richieste si attribuisce comunemente meno valore)
  • Non accettare carezze quando le desideri
  • Non rifiutare carezze che non gradisci
  • Non dare carezze a te stesso (il vecchio adagio “chi si loda si imbroda …”)

Steiner, in sintesi, ci invita a riprendere la nostra capacità e il nostro potere di scambiarci carezze, di ricreare un mondo in cui non ci siano limiti alle carezze, al riconoscimento reciproco, alla libera espressione anche di carezze negative quando occorra, purché espresse in modo responsabile e costruttivo.

La carezza è un ponte tra due abissi di solitudine. Perché il cielo e la terra passeranno, ma certe carezze non passeranno mai.” Diego Cui

Rossella Maiore Tamponi – Paolo Lorenzo Salvi

L’immaginazione è il talento per ripensare il futuro

L’immaginazione ci aiuta a dare senso e significato a scenari alternativi che potrebbero avvenire, così da poter creare un futuro nuovo. La definizione del sito web saperi.it alla parola immaginazione riporta: la facoltà di concepire nella fantasia e accostare liberamente, senza regole fisse, immagini, concetti e pensieri.

 Ogni nostra “impresa. ogni traguardo raggiunto, ha avuto immaginazione, ovvero la capacità di pensare in modo diverso ed originale un corso di azioni che hanno portato nuovi esiti e aperto nuove possibilità. Il significato dell’impresa come azione ed iniziativa importante e difficile è pertanto intimamente connesso al saper esplorare anche quello che non si vede e che riusciamo a far apparire davanti ai nostri occhi: “phantasma” (ciò che appare) in latino diventa “imago”.

Le immagini diventano come dei “simulacri”, ovvero delle figure che non corrispondono esattamente alla realtà, che simulano la presenza di ciò che non può esserci ma che si può concepire. Irrompe con forza l’idea di saper vedere e pensare al futuro utilizzando sia la nostra parte razionale e sia la nostra parte creativa e immaginativa. Dal mio punto di vista la funzione immaginativa si può e si deve nutrire di alcuni concetti di partenza quali: analogia, metafora, divergenza e lateralità, sogno.

Analogia

Il nostro fattore “esperienziale” ci porta a navigare sul terreno pratico e cercare, tra i fatti e i dati empirici, le analogie e le somiglianze tra elementi, situazioni, vissuti personali. Si stabiliscono così similitudini e si individuano relazioni arrivando a concepire delle nuove soluzioni. Ognuno di noi costruisce il suo sapere attraverso il confronto con il sapere già disponibile e questo processo gioca un ruolo importante ai fini della nostra conoscenza personale.

Questa capacità di pensare in modo analogico va applicata sapendo includere ed escludere gli elementi che occorrono per stabilire le analogie. Non si procede sulla base di una visione superficiale e immediata, ma occorre confrontare le possibili opzioni date da differenti modalità di correlare le cose e sostenere la soluzione scelta alla luce delle conoscenze e dei saperi applicati.

Immaginando relazioni possibili tra situazioni ed elementi di contesti diversi, viene elaborato un modello mentale che mette in connessione le conoscenze acquisite con nuovi ambiti di applicazione e si amplia l’orizzonte della nostra mente. Le analogie ci fanno diventare con il tempo più “esperti” e ci proiettano in un futuro ricco di stimoli e di collegamenti presi dalla realtà che viviamo.

Metafora

La metafora consiste nell’usare una parola, una frase, un discorso, per esprimere un concetto diverso da quello che si esprime abitualmente in forma semplice e accessibile. La metafora permette di illustrare con meno parole, di sintetizzare ampliandone l’immaginario, un concetto, un simbolo, un oggetto. La metafora è quindi una trasposizione simbolica di immagini.

Il “pensare per metafore” è una modalità della nostra mente. Non è relativo al solo campo poetico e artistico. La scienza contemporanea parla sempre più spesso per metafore e immagini tratte dal vivente. In fondo come forme di vita siamo nati dal “brodo primordiale”. Le metafore poetiche proiettano “il noto verso l’ignoto”nella ricerca di senso alla dimensione umana. Le metafore scientifiche si sforzano di riportare “l’ignoto al noto” per accrescere la conoscenza umana: davanti a un oggetto o a un fenomeno ancora largamente sconosciuto, si ricerca una spiegazione ricorrendo a similitudini e paralleli con un oggetto o un fenomeno conosciuto. Ecco dispiegata la potenza delle metafore quando decidiamo di utilizzarle per esplorare il nostro futuro.

 Pensiero laterale

È il pensiero esplorativo e generativo che porta infine a nuove idee e nuovi concetti in quanto si allontana dal noto e dall’atteso e non viene utilizzato come risorsa per dimostrare ipotesi precostituite. Per generare nuove risposte bisogna affrontare la sfida di allontanarsi da sentieri già visitati e battuti. “Con il pensiero verticale, uno si muove solo se c’è una direzione in cui muoversi; con il pensiero laterale uno si muove per creare una direzione”. “Non puoi scavare una buca in un punto diverso del terreno scavando sempre più in profondità la medesima buca”. Così si esprime Edward De Bono.

Alcuni fattori ci aiutano a rappresentare il pensiero laterale e sono:

  • fluidità: la capacità dimostrata da una persona di fornire il maggior numero possibile di risposte a una domanda data;
  • flessibilità: il numero di categorie concettuali alle quali le risposte del soggetto possono essere ricondotte;
  • originalità: la facoltà di esprimere idee nuove e realmente innovative, le quali portano un “salto” cognitivo, una discontinuità con le precedenti.
  • elaborazione: è l’abilità del soggetto di dare una veste concreta e operativa alle proprie idee.

Questi fattori ove coltivati, sperimentati e utilizzati, ampliano la capacità creativa delle persone.

Il pensiero laterale si fonda sulla ricerca deliberata di nuove prospettive, nuovi punti di vista da cui esaminare il problema, angoli visuali innovativi che consentono di rompere gli schemi percettivi abituali e arrivare ad un approccio originale ed efficace rispetto al tema da affrontare. Il futuro necessità della nostra capacità di divergere, di saper cogliere gli scenari possibili e creare i nostri “nuovi mondi” possibili.

Sogno

La dimensione del sogno rappresenta un universo parallelo alla vita reale ma capace, per molti aspetti, di incrociarla, influenzarla e talvolta cambiarne la direzione. Ciò che sogniamo ci aiuta “in primis” a conoscere meglio noi stessi, i nostri desideri, le paure e tutto ciò che la nostra anima desidera o teme. Il sogno è una rappresentazione così come lo è il teatro ed entrambe queste forme rivisitano, rielaborano e ricreano avvenimenti che partono dall’esperienza della realtà, eppure al tempo il primo tende a superarne le limitazioni.

Il sogno è la manifestazione della creatività individuale più spontanea e universalmente diffusa. Si manifesta con semplicità, ovvero il sognatore è quasi sempre al centro della scena principale e anche quando non è protagonista, comunque interpreta sé stesso, mantiene l’identità in cui si riconosce e il proprio punto di vista. Per questo il sogno è paragonabile a una “pieces” teatrale nella quale interpretiamo noi stessi in qualità di attori, vivendo la nostra storia in una dimensione onirica.

Proprio in questa dimensione onirica si esprime la potenza del sogno di essere un messaggio aperto al futuro: lo stesso fatto di conservare il ricordo di un sogno è un invito sottinteso a completare e risolvere il suo significato. Così possiamo agganciarci agli aspetti emozionali, suscitati e lasciati dalle impressioni del sogno e collegarli alla funzione molto importante di apertura della dimensione “sospesa” fra realtà e fantasia, fra conosciuto e misterioso.

Il sogno apre il territorio del possibile perché immaginabile, ci porta a esplorare scenari e mondi alternativi o innovativi, nei quali ci muoviamo senza rinunciare ad essere noi stessi, attivando risorse cognitive che possono permetterci di “dare senso” alle visioni. Il sogno ci permette di lavorare con la dimensione simbolica e di mettere in gioco aspetti di noi stessi che la vita reale non ci permette di esplorare. Nella frontiera dell’immaginario troviamo i simboli che possiamo richiamare ed evocare per trasformare la realtà.

Saper Immaginare il futuro

Analogie, metafore, pensiero laterale e sogno, ampliano il nostro talento di immaginare il futuro, alimentano e nutrono questa necessità vitale di pensare al domani come il luogo possibile dove stare meglio, essere più felici e realizzati.

Un circuito che parte dalle nostre emozioni, da ciò che ci fa sentire vivi e che nutre il nostro animo. Analogie e metafore possono essere evocative e altamente immaginative e quindi dare corpo alle emozioni, alle passioni, dalle quali siamo ispirati e motivati all’azione. Il pensiero laterale e divergente aiuta e favorisce la produzione di nuove idee. Il sogno, come sfida a immaginare una realtà diversa nei suoi caratteri essenziali, ci sostiene e ci proietta verso il nuovo e ci fa compiere un balzo più in là, con il cuore oltre l’ostacolo.

La dimensione dell’umano richiede salti in avanti e allo stesso tempo armonia con ciò che siamo e che ha caratterizzato il nostro percorso e la nostra storia. Saper riorganizzare“ creativamente queste forme di pensiero stimola la capacità di immaginare, ci aiuta a muoverci nella complessità del futuro senza perdere di vista il senso e la finalità della funzione immaginativa.

You may say I’m a dreamer

But I’m not the only one

I hope someday you’ll join us

And the world will be as one

Imagine, John Lennon

4 chiavi per il cambiamento personale

Ci sono 4 chiavi che ci rendono amico il cambiamento, ci aiutano ad avere un atteggiamento proattivo ed energia per essere al passo con ciò che muta insieme a noi.Il cambiamento irrompe nella nostra zona di comfort e porta una differenza, una variazione significativa. Ci porta a fare qualcosa di diverso od a essere diversi, attivando una trasformazione incrementale o radicale che sia. Conoscere il cambiamento significa viverlo come la dimensione caratteristica dell’esistenza umana, per coglierne le opportunità che sono insite in ogni piccola, medio e grande modifica dello status quo.

Per poter comprendere il tema del cambiamento possiamo esplorare alcuni aspetti chiave che ci avvicinano alla natura complessa di questo concetto e ci rendono più familiare l’idea di essere persone in divenire, capaci di cambiare. Questi focus riguardano visione, innovazione, potenzialità e apprendimento. Vediamoli brevemente.

Visione

La prima delle 4 chiavi per il cambiamento è la Visione, ovvero il quadro del futuro. Trovare la nostra direzione ci ispira e ci guida nelle nostre decisioni, come se disponessimo di un faro che ci indica la via e ci dice quali scelte sono da fare.

La gestione del cambiamento riguarda il processo attraverso cui siamo consapevoli della condizione del nostro presente percepito e ci orientiamo verso la situazione del futuro desiderato. È una transizione che ci trasporta nella nostra sfera dell’autorealizzazione situata in un orizzonte lontano che però ispira il nostro sguardo e ci trasmette energia positiva.

La visione è una immagine ricca di dettagli che ci mostra come abbiamo raggiunto i nostri obiettivi e le nostre mete. La tua dichiarazione di visione è come una tela da dipingere, puoi scriverla oppure disegnarla, raccontarla a persone a te vicine, in ogni caso stai articolando i tuoi progetti da realizzare nel futuro. Può aiutarmi una mindmap su un foglio di carta per definire l’intera visione, comprese azioni, risorse, opportunità e sfide. La visione deve essere semplice da condividere e deve ispirare l’azione! Senza quest’ultima, senza generare attivazione e iniziativa abbiamo solo un sogno ad occhi aperti.

Innovazione

La seconda delle 4 chiavi per il cambiamento è l’innovazione. Per immaginare un futuro diverso dobbiamo pensare ad un futuro che abbia i tratti del nuovo. Riprendendo gli spunti e l’analisi di Luciano Martinoli per “novazione” (termine tecnico molto noto in ambito giuridico) si intende: “… la capacità di far del nuovo, creare innovazione radicale, quello che il mondo anglosassone indica come breakthrough innovation”. L’innovazione invece è la novazione all’interno di qualcosa, indicata dal prefisso “in”, un miglioramento dell’esistente.

Sono evidenti le relazioni fra l’abitudine e la paura di cambiare. Si ha timore di uscire dal sentiero del noto e rassicurante. Si ha paura di ciò che è “abitualmente” considerato pericoloso o minaccioso, anche quando un minimo di approfondimento ci dimostrerebbe che in realtà non lo è.

L’abitudine è nemica dell’innovazione, “Ho sempre fatto così ”… Questo ritornello molto spesso recitato, porta una conseguenza seria, ovvero la chiusura verso il nuovo, verso il pensiero laterale, verso la possibilità di ampliare i confini della zona di comfort. Non riusciamo ad innovare perché non esploriamo e non scambiamo contenuti ed esperienze. L’autoreferenza in sintesi vuol dire chiudere le porte alla “contaminazione” delle idee, alla generazione di scenari alternativi e stili di vita differenti.

Segnalo inoltre che fra le “cattive abitudini” c’è anche quella di accettare ilnuovo”, senza chiederci se sia nuovo davvero oppure se quella particolare novità sia veramente utile. L’abitudine di inseguire indiscriminatamente le novità e le mode nasconde il timore di perdere consenso sociale o può derivare da mancanza di spirito critico.

Potenzialità

La terza delle 4 chiavi per il cambiamento riguarda il concetto della potenzialità, ovvero il “trolley delle nostre risorse” che ci portiamo nel viaggio della vita.

Ciascuno di noi ha abilità e potenzialità innate. Per la nostra autorealizzazione e benessere dovremmo coltivarle, farle emergere, allinearci ad esse. In questo modo possiamo esprimere così un cambiamento naturale e presente in noi stessi, ovvero quello di diventare veramente chi siamo!

La psicologia positiva (Seligman) guarda il comportamento umano in termini di punti di forza del carattere, ovvero caratteristiche positive che contribuiscono nel lungo termine al nostro benessere.

Secondo questo approccio, conoscere i propri punti di forza consente di costruire su di essi, ottenendo così una vita più felice e soddisfacente. I ricercatori hanno codificato questi punti di forza in 6 grandi virtù, ciascuno con il proprio sotto insieme di Punti di Forza. Le Virtù riguardano saggezza e conoscenza, coraggio, umanità e amore, giustizia, temperanza, trascendenza.

Le potenzialità personali sono il DNA della nostra filosofia di vita e poterle manifestare sviluppa la performance, aumenta il livello di soddisfazione e di entusiasmo e facilita il raggiungimento di obiettivi professionali e personali. Le performance che siamo capaci di realizzare corrispondono alla differenza tra le potenzialità che abbiamo meno le interferenze. Ma quali sono queste interferenze? Spesso le riconduciamo a fattori esterni quali gli altri, il lavoro, la società, le circostanze sfavorevoli, il caso, la sfortuna. Invece le vere interferenze sono principalmente i nostri pensieri, le nostre convinzioni limitanti ed in definitiva noi stessi. Il vero avversario – ci insegna Tim Gallwey– non è colui che è dall’altra parte della rete nel campo da tennis, (cioè l’altro) ma è nella nostra testa, siamo noi stessi.

Trovo proficuo partire con l’accrescere la nostra consapevolezza e la conoscenza di sé, riconoscendo quali potenzialità e abilità personali sono dentro di noi e darci il permesso di esprimerle. Incoraggiarsi e prendere coscienza delle proprie potenzialità è di fondamentale importanza per cambiare anche le proprie performance.

Apprendimento

L’ultima delle 4 chiavi per il cambiamento è quella dell’apprendimento. Il conoscere (knowing) include sia ciò che sappiamo sia che ciò che possiamo fare ed indica uno stato. A questo si aggiunge il fatto che le nostre conoscenze hanno un ciclo di vita, come ben espresso da Nonaka e Takeuchi a metà degli anni 90 del secolo scorso.

L’apprendere (learning) indica dei cambiamenti nello stato di conoscenza. L’apprendimento accresce la conoscenza o modifica qualcosa della conoscenza precedente. È una dimensione sempre presente nella vita delle, ovvero la capacità di apprendere ad apprendere e la riflessione su come sviluppiamo il nostro apprendimento è una risorsa cruciale nella vita delle persone.

Le persone così possono essere sempre più protagoniste del loro percorso di crescita e cambiamento nell’ambito delle relazioni personali e di lavoro, trovando oggi modalità e strumenti tecnologici e sociali per condividere, collaborare e partecipare nella “costruzione” del sapere (social network). Questo focus ci fa considerare il nostro apprendimento come un processo mediante il quale acquisiamo nuove conoscenze e sul quale influiscono diversi aspetti:

  • esperienze individuali e collettive che rielaboriamo con la nostra intelligenza emotiva e cognitiva
  • strategie cognitive personali e stili di apprendimento
  • stimoli dell’ambiente circostante, ovvero input e informazioni provenienti dalla realtà esterna
  • modelli, formalismi, teorie e contenuti che di vengono dai percorsi formativi che scegliamo
  • strumenti di comunicazione e modi che regolano lo scambio delle informazioni

In fin dei conti il nostro apprendimento è un processo dinamico, che segue percorsi non lineari e non sequenziali e dipende tanto dalla nostra iniziativa e dalla nostra motivazione interna. Apprendere è cambiare!

In conclusione

Prima che le idee si trasformino in azioni è la consapevolezza del cambiamento come opportunità sempre presente nelle nostre vite che può infonderci un senso di positività, di possibilità. Le 4 chiavi per il cambiamento non ci spingono sempre e comunque a cercare di trasformarci ed essere iperattivi, tuttavia in molte situazioni la tensione allo “status quo” produce una sorta di artrosi mentale che ci limita fortemente e a volte ci imprigiona. Proprio allora dobbiamo essere nuovamente ispirati e tornare a vedere il mondo con occhi diversi, cogliendo nuovi significati e relazioni fra le cose, per riprendere a cambiare davvero. Così si può esprimere il valore e l’utilità di ciascuno delle 4 chiavi per il cambiamento personale.

Visione, innovazione, potenzialità e apprendimento sono gli ingredienti necessari alla nostra personale ricetta per cambiare!