la responsabilità di vivere il cambiamento

Responsabilità: liberi di interpretarla e di viverla

Quante volte ci viene chiesto di assumerci le nostre responsabilità? Quando invece è una libera scelta, ovvero frutto di un pensiero indipendente che sceglie quale corso si azioni prendere?

Il termine responsabilità deriva dal latino respònsus, participio passato del verbo respòndere, rispondere cioè, in un significato filosofico generale, impegnarsi a rispondere, a qualcuno o a sé stessi, delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. Wikipedia.

La responsabilità ha una valenza personale

Siamo responsabili dei nostri pensieri. La nostra attività cognitiva in stato di veglia dipende da noi, siamo noi che alimentiamo il nostro flusso interno dei pensieri, dei collegamenti che sviluppiamo tra i concetti, delle analisi e delle sintesi che elaboriamo. Certamente i nostri pensieri possono essere influenzati o condizionati da stimoli esterni, ma in ultima istanza ogni individuo adulto sceglie cosa pensare e come pensarlo. La vita è quello che il nostro pensiero interpreta rispetto a quello che facciamo e che ci accade.

Siamo responsabili dei nostri sentimenti. La nostra sfera affettiva ed emotiva dipende da noi. Possiamo riconoscere quali emozioni stiamo provando e quale comportamento possiamo adottare per il nostro benessere e quello altrui. Siamo responsabili di poter cambiare il nostro stato emotivo, attuando delle azioni che hanno il fine di modificare la risposta agli stimoli che ci mandano in reazione. L’emotività, i sentimenti, di per sé non implicano una valenza pericolosa, tuttavia sono i comportamenti che mettiamo in pratica a poter avere conseguenze negative.

Siamo responsabili della cura per noi stessi.Mens sana in corpore sano” dicevano i latini. Mantenere in buono stato il nostro corpo e occuparci del nostro spirito. Nutrirci bene sia con l’alimentazione sia con il cibo che scegliamo per la nostra mente, al fine di farla crescere ed elevare. Siamo responsabili del nostro benessere psico-fisico e di tutelare la nostra salute e quella degli altri.

Siamo responsabili delle nostre azioni. Come tutte le persone libere, decidiamo quale corso di azioni adottare e poi agiamo. Possiamo anche cambiare i nostri comportamenti “in itinere” e scegliere di provarne altri. Soprattutto siamo noi a scegliere se restare dentro le nostre abitudini o cambiare: mettersi in moto, imparare nuove cose, cercare nuove vie, affrontare le sfide. Tra la zona di comfort nella cui ansa stiamo al riparo ed il mare aperto, con nuove rotte verso altre opportunità, ci siamo sempre noi!

La responsabilità ha anche una dimensione collettiva e relazionale

La responsabilità - liberi di viverla

Siamo responsabili di comunicare con gli altri. Questa responsabilità viene espressa con la disponibilità allo scambio e l’empatia, accogliendo l’altro sia emotivamente, sia riconoscendo la sua opinione. Occorre spostare l’attenzione dal contenuto della comunicazione, oltre il rumore di fondo, alla relazione e comprendere che il punto di vista dell’altro è altrettanto legittimo. Siamo responsabili di “uscire” dal processo comunicativo in corso e analizzarlo dal di fuori, per capire se e dove non ha funzionato.

Siamo responsabili nei diversi ruoli sociali. La nostra vita si svolge in una dimensione sociale. Ognuno di noi può essere genitore e figlio, partner in una relazione o amico. Siamo lavoratori o studenti, sportivi o tifosi di una squadra, credenti o impegnati in politica, cittadini di una nazione ecc. Apparteniamo a delle comunità, siamo immersi in una molteplicità di ambienti e abbiamo delle responsabilità per come agiamo verso gli altri. Quali benefici di tipo affettivo, sociale, cognitivo o economico, generiamo per loro?

Siamo responsabili verso l’ambiente nel quale viviamo. Abbiamo la responsabilità di tutelare, nella nostra vita quotidiana, il territorio nel quale ci troviamo, il nostro mondo circostante. La nostra sensibilità ambientale collettiva eleva la qualità della nostra vita e può generare processi virtuosi.

Siamo responsabili per il nostro contributo al mondo. Perché facciamo quello che facciamo? Cosa ci rende diversi dagli altri? Quale impronta vogliamo lasciare in ciò che facciamo? Cercare il nostro scopo fondamentale nella vita, individuare la nostra missione nel mondo è una responsabilità che ci appartiene e attribuisce senso a tutto, orientando le nostre azioni.

Concludo citando George Bernard Shaw. “La libertà significa responsabilità: ecco perché molti la temono.”

 

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Consapevolezza: il respiro profondo con il mondo

La consapevolezza è una presa di coscienza che richiede impegno, per comprendere a fondo i pensieri ed i nostri stati d’animo. Il fiume dei pensieri scorre dentro di noi, a volte impetuoso e caotico, a volte lento e inceppato. Non possiamo controllare ciò che pensiamo alla sorgente, in quanto il nostro intelletto cognitivo genera un flusso continuo, attivato da una molteplicità di percezioni esterne ed interne.

Possiamo però dirigere la nostra attenzione, scegliere quei pensieri sui quali soffermarci, sui quali effettuare altre elaborazioni, approfondimenti. La consapevolezza nasce da una riflessione intenzionale e selettiva che illumina i nostri pensieri e ci fa comprendere il significato delle nostre azioni e di quelle altrui.

Anche la consapevolezza delle nostre emozioni e dei nostri stati d’animo è altrettanto importante. Si inizia con dare un nome ai sentimenti che proviamo, per rappresentarli con chiarezza a sè stessi ed agli altri. Ogni emozione è una parte di noi che si esprime ed occorre averne coscienza per ascoltarla e quindi regolarla. Le emozioni sono informazioni importanti per esplorare noi stessi ed essere in relazione autentica con gli altri e con l’ambiente che ci circonda.

I sentimenti di fondo influenzano l’umore, ovvero il nostro stato d’animo che perdura nel tempo e che noi riferiamo contestualmente alla qualità della vita e al nostro benessere.  La consapevolezza quindi è legata in modo indissolubile al conoscere noi stessi, come dicevano i greci. E’ un respiro profondo con il quale entriamo in contatto con noi stessi e con il mondo circostante.

Lo stato di consapevolezza richiede di uscire dalla “comfort zone” nella quale facciamo le cose in modo automatico, prestando poca o nulla attenzione. Fuori dalla zona di comfort il nostro sguardo ha maggiore chiarezza e soprattutto abbiamo coscienza di come potenziare la nostra consapevolezza attraverso alcune modalità.

  1. Sviluppare la nostra intelligenza emotiva. Essere consapevoli delle proprie emozioni e delle proprie reazioni ci consente di poter intervenire in anticipo per regolarle. Significa anche avere informazioni rilevanti per poter prendere decisioni che a volte appaiono complesse e difficili.
  2. Utilizzare la relazione con gli altri. Le informazioni che ci ritornano dalle persone con cui ci relazioniamo, nei nostri diversi ruoli sociali, ci permettono di aumentare la conoscenza di noi stessi. E’ un modo immediato per confrontare come io mi vedo e come mi vedono gli altri, per verificare se quello che io immagino di me corrisponde in tutto od in parte a ciò che gli altri vedono di me.
  3. Rielaborare il nostro corso di azioni passato. C’è una consapevolezza fondamentale nel rielaborare i nostri comportamenti passati: analizzando cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato, in relazione anche ai risultati raggiunti, comprendiamo quali sono le abilità messe in campo. Siamo più consci di quali capacità possediamo e quali ci mancano e\o possiamo far crescere.
  4. Vivere il qui e ora. Siamo capaci di cogliere il momento e di vivere l’attimo fuggente? Per farlo occorre essere in connessione con il mondo intorno a noi in quel preciso istante: ambiente, persone, sensazioni, emozioni, pensieri, azioni. Il presente ci appartiene e siamo capaci di coglierlo perché indirizziamo l’attenzione e le risorse mentali in modo mirato e cosciente, plasmando e definendo con pienezza ogni nostra esperienza di vita.

Concludo citando Dan Brown, da Il simbolo perduto, 2009. Vivere nel mondo senza avere consapevolezza del suo significato è come vagabondare in una immensa biblioteca senza neppure toccare un libro.

 

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Cambiamento: il nostro compagno di viaggio

Il cambiamento ci accompagna lungo tutto l’arco della nostra vita spesso in modo riservato e quasi invisibile, a volte in modo evidente e forte, altre volte ancora allontanato da noi e pur sempre pronto a ripresentarsi. Il cambiamento è scegliere nuove vie che ci aprono a dei nuovi sviluppi, delle opportunità e delle innovazioni. Riguarda anche il passaggio ad un livello personale di maggiore consapevolezza, di visione diversa, di autonomia ed empowerment.

Cosa ci spinge a cambiare? Come dobbiamo cambiare? Già queste due semplici domande ci portano dinanzi alle sfide che porta il cambiamento, per saperlo riconoscere prima e attuarlo poi.

Cosa ci spinge a cambiare?

Riguardo alle motivazioni di fondo e collegando questo tema alle finalità di un percorso di Coaching, ci sono di grande aiuto le considerazioni che ci vengono dalla “Self Determination Theory” abbinate con il livello qualitativo degli obbiettivi di cambiamento, proposto dal Coach Luca Stanchieri.

Se colleghiamo il cambiamento ad una nostra visione del futuro e alle nostre esigenze di autorealizzazione, individuiamo tre aree di sviluppo che portano al ben-essere.

  • Area della Relazionalità: bisogno di coltivare e sviluppare relazioni sociali, provando affettività positiva.
  • Area della Competenza: bisogno di sviluppare conoscenze e abilità per sentirsi capaci di raggiungere i risultati.
  • Area della Autonomia: bisogno di effettuare decisioni e scelte autodeterminate, sulla base delle proprie idee e delle proprie inclinazioni.

Se il cambiamento ha una finalità e lo sappiamo vedere come un percorso, allora lo possiamo collegare anche all’apprendimento. Per rendere il cambiamento un elemento sostanziale nelle nostre vite, possiamo esprimerlo come un obbiettivo personale, muovendoci verso l’autosviluppo in una o più delle tre suddette aree. Avremo allora tre modalità qualitative di definire l’obbiettivo.

Obiettivi minimi di cambiamento: riguardano un ambito circoscritto di una delle tre aree sopra citate, la relazionalità, la competenza e l’autonomia. Ad esempio un manager che deve affrontare un problema di comunicazione interna, oppure un colloquio di lavoro da sostenere.

Obiettivi transitori: incidono significativamente in uno dei tre ambiti dell’autogoverno. Si parla di cambiamenti che possono riguardare la gestione della perdita di un lavoro oppure il cambiamento di ruolo. Quale corso di laurea scegliere. Come affrontare la fine di una relazione importante, ecc.

Obiettivi massimi di cambiamento: riguardano due o più aree dell’autorealizzazione ed investono la persona nel suo complesso. C’è molta affinità con il concetto di cambiamento radicale, in quanto si tratta di passaggi fondamentali della nostra vita. Crisi profonde, fallimenti di progetti, svolte importanti quali, ad esempio, il passaggio da dipendente a libero professionista in un’altra città.

Come possiamo cambiare?

Il cambiamento è intorno a noi, anzi l’unica certezza che abbiamo nella vita è che tutto scorre e muta. Cambia l’ambiente intorno a noi, cambiano le stagioni, cambia il nostro corpo, cambiano le nostre percezioni ed i nostri bisogni.

La prima modalità è l’adattamento, la nostra risposta reattiva a ciò che muta intorno a noi e ci induce ad agire un comportamento. La seconda modalità riguarda la proattività, ovvero una risposta che cerca di anticipare il cambiamento, riducendo i possibili elementi negativi per noi ed aumentando i vantaggi dei comportamenti preventivi.

Certo, possiamo sempre provare indifferenza verso il cambiamento e sperare che non ci riguardi, che passi via come un fenomeno passeggero, un venticello di breve durata. Oppure proviamo a resistere al vento del cambiamento, opponendoci ad esso a favore della conservazione: si costruiscono dei muri anziché i mulini con le pale, si resta incapaci di cogliere ogni opportunità. Più ci si avvicina al nucleo delle convinzioni profonde delle persone e degli stati d’animo consolidati, più sarà vissuto negativamente e carico di minacce il tema del cambiamento.

La persona dalla mente poco impegnata teme sempre il cambiamento. Egli sente sicurezza nello status quo, e ha una paura quasi morbosa del nuovo. Per lui, la sofferenza più grande è la sofferenza per una nuova idea. (Marthin Luter King)

Infine anche la portata del cambiamento incide non poco nel nostro atteggiamento e nelle modalità che adotteremo. E’ un cambiamento incrementale? Ovvero viene costruito sul precedente? Non stravolge ma migliora progressivamente quello che facciamo e quindi le capacità che applichiamo?

E’ un cambiamento radicale, ovvero porta delle discontinuità? Si prova allora a ”riconsiderare“ la situazione mettendo in discussione il nostro corso di azioni. Si riflette su quali sono i valori e gli scopi dietro le azioni, si cambia il modello di riferimento, si scoprono nuove abilità e si aprono nuove relazioni.

Il cambiamento è davvero il nostro compagno di viaggio, dobbiamo renderlo un nostro alleato, definendo la visione del futuro e gli obbiettivi significativi per noi, al fine di cogliere tutte le opportunità per la nostra vita. Per chiudere con le parole di Henri Bergson: “esistere è cambiare, cambiare è maturare, maturare è continuare a creare se stessi senza fine”.

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Storytelling e Coaching: cornici di senso per le storie

Per ri-scrivere la nostra storia e rappresentarla come una serie di eventi ordinati nel tempo, dei quali si colgono le relazioni causali e il collegamento con i significati profondi, dobbiamo poterla vedere da un punto di vista emozionale. La cornice di senso per rappresentare una storia è una sorta di “visual storytelling”: si utilizzano modalità di “design” visivo per il racconto e si può rendere semplice ciò che inizialmente ci sembrava difficile esprimere e strutturare.

Prima di definire lo storyboard, la sceneggiatura dove noi spostiamo, aggiungiamo e togliamo, modifichiamo la sequenza degli eventi per narrare il nostro viaggio avventuroso nella vita, abbiamo bisogno di una cornice di senso più emotiva, capace di rappresentare la trama che si sta dispiegando per noi.  Occorre una visione di insieme che integri gli elementi fondamentali per entrare in contatto con le proprie potenzialità eroiche.

A questo proposito è molto significativa la frase dell’Oracolo tratta dal film Matrix Revolutions: “al mondo tutto quello che ha un inizio ha anche una fine“.

Già Aristotele nella “Poetica” aveva affermato che la favola deve essere compiuta e perfetta, in altri termini deve avere unità, ossia un inizio, uno svolgimento ed una fine. Questo ci porta ai tre punti salienti di ogni narrazione che contengono anche i momenti emotivi fondamentali.

1) L’inizio di una storia individua un problema, un ostacolo od un desiderio. Si tratta di un’opportunità oppure una sfida che riguarda il protagonista (coachee), il quale è “chiamato” ad uscire dalla quotidianità e dal corso normale della sua vita.

2) La parte centrale, “di mezzo”, esprime il momento cruciale della lotta, con alterni momenti di tensione e allentamento caratterizzati da prove, ostacoli superati e insuccessi. C’è incertezza e non si sa ancora come finirà. Il protagonista vive il processo di trasformazione che può comprendere aspetti psicologici, spirituali e fisici. In questa fase si scoprono le potenzialità personali e avviene l’acquisizione di nuove abilità o competenze, utili a raggiungere l’obiettivo finale.

3) La “chiusura” esprime la fine di quel ciclo di eventi ed il cambiamento o la trasformazione avvenuta nella storia. Il protagonista (coachee) raggiunge una risoluzione (obbiettivo), fa i conti con i “nodi emotivi” ed ha una esperienza di apprendimento.

Ecco un punto di contatto fondamentale fra storytelling e coaching. In questo ciclo narrativo si compie anche l’arco di trasformazione del personaggio. Il protagonista alla fine del ciclo si modifica, acquista consapevolezza e supera un problema interiore che spesso non sapeva di avere.

Analogamente l’arco di trasformazione del “coachee” prende forma nell’intreccio fra storytelling e coaching e possiamo considerarlo:

  • sia come il cammino necessario per riscrivere la “sceneggiatura” che riguarda la nostra vita e molti dei suoi temi\problemi caratterizzanti (ciò che ci rende unici);
  • sia il racconto delle tappe di un processo di crescita verso una consapevolezza che appartiene a tutte le persone (ciò che ci rende simili).

Le scoperte e l’apprendimento che sono insite nelle nostre narrazioni alla fine mettono in relazione profonda lo scorrere della trama che sappiamo finalmente vedere e il nostro sviluppo interiore, a partire da una “crisi di autogoverno” che è lo stato di partenza per ogni percorso di coaching.

In questo connubio tra storytelling e coaching, possiamo dare valore formativo e per la crescita alle nostre storie personali, al fine di:

  • definire una mappa personalizzata della storia, la nostra cornice di senso;
  • innescare il processo di cambiamento iniziando a rappresentarlo;
  • rendere più fluido e chiaro lo sviluppo della nostra storia futura da cambiare (storyboard), mettendo a fuoco le domande chiave, gli obbiettivi, le sfide, i nemici e gli ostacoli, gli alleati e le risorse.

Se sappiamo vedere il futuro come una storia da raccontare, possiamo già portare il futuro dentro di noi.

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Intelligenza emotiva e riuscita sociale

Se andiamo all’essenza di questa fondamentale competenza, l’intelligenza emotiva si può definire come la capacità di percepire, comprendere e regolare i propri stati d’animo e le proprie emozioni. Un grande passo avanti nel considerare speciale questo tipo di intelligenza è stato il superamento del primato, nel mondo del lavoro, delle sole capacità intellettuali e delle conoscenze tecniche. L’intelligenza analitica ed i saperi specialistici sono elementi necessari per svolgere il ruolo assegnato ma non sono determinanti per raggiungere l’eccellenza lavorativa.

La nostra intelligenza emotiva è ritenuta sia in ambito formativo e sia nel coaching l’elemento cruciale, un vero e proprio “X factor”, per la riuscita sociale di una persona. Ciò che ci fa progredire nella vita è la capacità di comunicare con gli altri, la sensibilità interpersonale, l’empatia e la capacità di dare e ricevere segnali emozionali. Saper cogliere il flusso dei rapporti umani nei quali siamo immersi e la loro valenza relazionale e affettiva non dipende dalla razionalità.

Non si tratta di reprimere l’emotività ritenendo in tal modo di poterla controllare, oppure di sopprimere quelle che riteniamo emozioni negative e incoraggiare le emozioni positive. Come scriveva lo psichiatra e ricercatore Servan-Schreiber:

Ciò che di fatto limita il successo delle persone non è tanto il basso livello di conoscenza matematica o la scarsa abilità nel manipolare rapidamente i concetti astratti, ma piuttosto delle cose più semplici come il pestare i piedi agli altri, il rendere infelici i propri collaboratori o l’inasprire talmente i rapporti che il gruppo di cui si è parte non può funzionare come una squadra” (Servan-Schreiber, 1998)

Daniel Goleman ha condotto studi e ricerche in centinaia di aziende ed ha enfatizzato che l’Intelligenza emotiva diventa cruciale quanto più è alto il livello manageriale che una persona detiene nell’organizzazione. A differenza del Quoziente Intellettivo (QI), che si modifica poco una volta superata l’adolescenza, l’intelligenza emotiva (secondo Goleman) pare sia frutto di un apprendimento continuo in relazione ai nostri vissuti, se sappiamo renderli fonte di crescita personale.

Salovey e Mayer hanno  utilizzato il termine intelligenza emotiva per la prima volta nel 1990, con il fine di descrivere un modello di intelligenza basato su 4 diversi livelli di abilità che ora andiamo ad esplorare.

  1. Identificare le emozioni: la capacità di identificare le proprie emozioni e di rilevare quelle altrui attraverso le espressioni del viso, la voce o la sensibilità alle situazioni. L’identificazione ci permette l’elaborazione delle informazioni emotive.
  2. Utilizzare le emozioni: la persona emotivamente intelligente può migliorare le sue azioni lavorando sugli stati d’animo.  Si tratta della capacità di utilizzare le emozioni per facilitare le attività conoscitive, la creatività e il problem solving.
  3. Comprendere le emozioni: è la capacità di poter interpretare il linguaggio emotivo e di riconoscere i rapporti che intercorrono tra le emozioni.
  4. Gestire le emozioni: è la capacità di intervenire sulle proprie azioni quando rispondiamo alle nostre emozioni e a quelle che esprimono gli altri.

Il potere dell’intelligenza emotiva è di portarci a comprendere i nostri comportamenti e farci riflettere su noi stessi e sugli altri.  La persona emotivamente intelligente regola le proprie emozioni per raggiungere gli obiettivi che le stanno veramente a cuore.

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